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Non avrebbe voluto diventare un eroe, Giovanni Falcone. Perché era convinto che uno Stato tecnicamente attrezzato e politicamente impegnato potesse sconfiggere il crimine organizzato facendo a meno di tanti sacrifici individuali. Per Falcone, la responsabilità collettiva di un ufficio specializzato, di un'istituzione locale, di una Procura nazionale, avrebbe dovuto cancellare le singole personalità, le singole responsabilità e dunque la vulnerabilità dei singoli operatori dell'Antimafia: "Quando esistono degli organismi collettivi," diceva "quando la lotta non è concentrata o simboleggiata da una sola persona, allora la mafia ci pensa due volte prima di uccidere." Non avrebbe dunque, Falcone, voluto diventare un eroe. "Vale la pena," gli avevo chiesto durante un'intervista televisiva del gennaio 1988 "vale la pena rischiare la propria vita per questo Stato?" E lui rispose, un po' sconcertato: "Che io sappia, c'è soltanto questo Stato, o più precisamente questa società di cui lo Stato è l'espressione." Non eroe per vocazione, ma servitore dello Stato: questo era il giudice Falcone.
Era anche, per essere esatti, per questo motivo era un uomo appassionato di conoscenza, curioso, preciso, pignolo, pragmatico, ossessivamente rigoroso nel rispetto delle forme, sempre alla ricerca di un indizio, di un'informazione, di una verifica, di una prova. Quando interrogava un mafioso, ciò avveniva soltanto dopo avere sgomberato la mente da ogni pregiudizio, da ogni preconcetto, da ogni giudizio ideologico. Mandò un ufficiale della Guardia di Finanza per verificare se nella tale piazzetta a San Paolo in Brasile ci fosse, all'inizio degli anni Ottanta, quel banco di ferro dinanzi a quella falegnameria di cui Tommaso Buscetta aveva parlato nelle sue confessioni. Non per amore del dettaglio accessorio, ma per accertare l'attendibilità dell'insieme della testimonianza dell'ormai celebre "pentito". In un paese dove troppo spesso ci si accontenta di approssimazioni, di valutazioni, di finti sondaggi, di cifre non verificate, lui si distingueva e si distingue ancora per un rigore quasi matematico nella ricerca della verità. Anche per questo, dunque, Falcone fu un grande servitore dello Stato. Un servitore dello Stato che metteva lucidamente in conto anche il sacrificio della propria vita. La sua eredità? Oggi la ritroviamo non solo nella magistratura, ma anche in alcuni casi, soprattutto negli apparati investigativi delle forze dell'ordine. Perché loro, meglio di chiunque altro, sanno quanto preziose siano la verifica dei fatti e dell'attendibilità dei testimoni, e quanto sia invece dannoso incriminare, o addirittura mettere in carcere, un presunto criminale, se lo si deve scarcerare qualche mese dopo con tanto di scuse da parte dello Stato. Per questi uomini del Servizio Centrale Operativo, della Criminalpol, della DIA e di molti altri organi della lotta alla criminalità, il lavoro discreto, collettivo, serio, e la verifica metodica, sono la garanzia del successo. Sono loro, oggi, gli eredi di Falcone. E come Falcone, vanno avanti sulla loro strada, anche se non si respira più nell'aria l'entusiasmo di una volta, e anche se, da parte di alcuni membri delle istituzioni e di alcuni responsabili politici vengono segnali poco incoraggianti, strani ammiccamenti e attacchi ingiustificati ai cosiddetti "pentiti". Esattamente come Falcone, sono anche loro dei servitori dello Stato che, in nome di uno "Stato-così-come-dovrebbe-essere", lottano per la credibilità di questo "Stato-così-com'è".
Marcelle Padovani
<<'A megghiu parola è chidda ca 'un si dici. >> Antico proverbio siciliano
«L'intera Sicilia è una dimensione fantastica. Come si fa a viverci senza immaginazione? >> e si fa a vi
Leonardo Sciascia
LA BIBLIOTECA DEL CORRIERE DELLA SERA
GIOVANNI FALCONE In collaborazione con Marcelle Padovani
Cose di cosa nostra
FABBRI EDITORI - CORRIERE DELLA SERA
Allegato al numero odierno del «Corriere della Sera» - Direttore responsabile: Paolo Mieli - Editore RCS Editori
Anno ediz | 1995 |
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Legatura | Copertina rigida con sovracoperta |
Pagine | 173 |