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A mia personale scoperta del Cilento risale agli anni Cinquanta. Dopo un soggiorno pasquale sulla costiera amalfitana e una puntata a Paestum programmata da mio padre per assecondare la mia precoce vocazione di architetto, decidemmo di andare verso la Calabria e ci avventurammo lungo un percorso automobilistico tanto arduo, allora, quanto imprevedibile e affascinante.
Era un'Italia, quella che scoprimmo attraversando tutto il Cilento, rimasta indenne da ogni vantaggio del cosiddetto "progresso" ma anche miracolosamente sottratta ai suoi numerosi svantaggi che avemmo modo di scoprire, centellinandoli, nei decenni successivi. Il ritmo di vita degli abitanti non era granché cambiato da secoli e la "misura naturale", quella che scandisce la notte e il giorno, le diverse stagioni e attraverso le fasi lunari i tempi della semina e del raccolto e che tiene uniti i membri delle piccole comunità come gli ospiti di una barca di fronte alla forza e alla solitudine del mare, era una misura nettamente percepibile, era anzi la chiave di comportamenti, di sorrisi, di timori, di ritrosie, di condiscendenze verso gli ospiti che ci colpirono come il segno di una identità preziosa.
Ricordo una lunga sosta a Camerota nella bottega del vasaio che approntava vasi dalla forma arcaica destinata a conservare l'acqua che in molte case non fluiva, assicurata da un previdente acquedotto, attraverso tubi e rubinetti ma era ancora oggetto di quotidiana conquista e di trasporto all'aria aperta da parte di donne che l'abitudine a portare sulla testa pesi cospicui, aveva rese, nel portamento, straordinariamente armoniose e "direi" ieratiche, se non addirittura regali.
Colpiva allora nel Cilento, oltre a questa presenza di una civiltà contadina ancora vissuta nei suoi ritmi e nei suoi valori, un filone di gaiezza e filosofica serenità e, nell'ambiente di molti centri, una eleganza urbana che faceva supporre rapporti intensi, trascorsi o ancora vivi con una grande città come Napoli, ancora in possesso di un suo proprio "stile di vita".
Di quanto allora incontrai nel fortunoso viaggio compiuto da Paestum a Sapri molte cose sono scomparse e in particolare la più preziosa: quel senso di equilibrio e di armonia tra l'uomo e l'ambiente; ma gran parte del paesaggio e delle architetture che caratterizzano i luoghi sono ancora lì e parlano lo stesso linguaggio anche se gli uomini sono cambiati e al di là dell'equilibrio perduto essi cercano nuovi equilibri da conquistare, venendo a patti con il mondo del progresso e dello sviluppo ormai diventato così aggressivo e penetrante da rendere vano ogni tentativo di metterlo tra parentesi.
Dicevo del paesaggio: quella straordinaria distesa di monti e colline che da tanti punti di osservazione appare come una serie di profili posti in successione, uno dietro l'altro, sempre più frastagliati e sempre più evanescenti fino a che un chiarore diffuso non ne interrompe il degradare che sembrava infinito. Quel chiarore diffuso è il mare e nel Cilento il mare è sempre presente, nella memoria quando non nella vista, punto di riferimento e accompagnamento continuo al quale si sovrappongono i motivi musicali degli scenari naturali, di quelli costruiti dall'uomo e della vita quotidiana con i suoi riti e le sue infinite ripetizioni.
Anno ediz | 2000 |
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Autore | |
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Legatura | Copertina flessibile |
Pagine | 63 |